I mulini di Arquata - di Vittorio Camacci
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Nell' antichità erano presenti ed attivi ben quindici mulini ad acqua nel territorio arquatano. Oggi sono tutti non funzionanti, tranne il mulino Capovilla di Trisungo, ex-proprietà della famiglia Calvelli ed oggi appartenente alla nota famiglia molitrice Petrucci, riconvertito in elettrico agli inizi del secolo scorso, mentre gli altri sono stati trasformati in abitazioni private, restaurati o riconvertiti ad altra utilizzazione.
Tutti gli altri sono abbandonati, diroccati o scomparsi del tutto. Il loro stato di conservazione è drammaticamente peggiorato dopo lo sciame sismico del 2016. I mulini di Arquata del Tronto erano stupendi esempi di opifici idraulici, antiche strutture medievali per la molitura dei cereali, in alcuni casi fortificati per difendere il loro prezioso tesoro di farine, preziose per alleviare la fame del passato. Gli ultimi veri mugnai hanno continuato a macinare fino agli anni settanta. I mulini erano quasi tutti a ruota orizzontale, detta "ritrecina" e la diffusione capillare di questi impianti nella nostra zona fu dovuta all'ordine monastico dei Benedettini che dal convento di Borgo ci insegnarono quasi tutte le tecniche di coltivazione e di costruzione di macchinari artigianali utili alla vita ed alla sopravvivenza di tutti i giorni.
Capodacqua - ex mulino ad acqua - foto Picenobello
La loro diffusione fu agevolata dalla presenza di importanti corsi d'acqua racchiusi tra le piccole valli delle nostre montagne. Questi mulini, infatti, potevano funzionare anche in estate, quando i torrenti avevano una portata limitata, perché il loro funzionamento consisteva nel deviare una parte d'acqua del fiume, grazie ad una chiusa, incanalarla in un canale "la reglia", per portarla ed immagazzinarla in un invaso retrostante il mulino "lù bòttacce" e sfruttare, poi, questo potenziale di riserva.
Il mulino a ruota orizzontale era completato da due macine di pietra poste orizzontalmente, l'una sopra l'altra, quella inferiore era chiamata "la dormiente" mentre quella sopra "la girante" perché ruotava sull'altra permettendo lo schiacciamento dei chicchi, creando la crusca, che poi setacciata, diventava farina. Dal canale partiva una condotta che portava acqua fino alla grotta sottostante il mulino, dove si trovava l'albero a cucchiai, e grazie alla pressione dell'acqua sulla loro sezione conica conferiva la forza sufficiente per far girare "la ritrecina". La macina superiore era collegata in presa diretta con l'albero a cucchiai e quindi ruotava al suo movimento. I cereali venivano messi nella tramoggia posta sopra le macine e cadevano pian piano nel foro posto al centro della macina superiore, veniva poi distribuito nello spazio tra le due macine per poi uscire nel cassone frontale "la cotina" dove veniva raccolta.
Sono riuscito a trovare traccia di questi mulin: Trisungo, due mulini ( il Molino Capovilla sulla destra orografica del Tronto mosso ad energia idraulica fino al 1907 ex proprietà Calvelli ora proprietà Petrucci) [attualmente inagibile per il sisma], era presente un altro mulino tra Fonte della Putetella ed il Ponte di San Paolo di cui restano alcune rovine e le bocche di uscita; Pretare (bellissimo mulino in stile liberty venne acquistato da Piermarini Lorenzo emigrato "di ritorno" dall'America e ceduto a Marini Lorenzo che lo gestì fino agli anni settanta. Oggi è di proprietà del figlio Antonello che lo ha restaurato trasformandolo in civile abitazione.
Del vecchio mulino sono presenti tutte le caratteristiche peculiari: la vasca, le macine e gli alberi delle ritrecine [attualmente inagibile per sisma]; Piedilama (due mulini, uno lungo la desta orografica del Fosso delle Pianelle sopra la grotta di Sant'Egidio, mentre quello più in basso sulla sinistra orografica denominato mulino Cataldi conserva ancora miracolosamente le ritrecine con i cucchiai nelle bocche di uscita) [seriamente danneggiati dal sisma] ; Borgo (due mulini di proprietà Calvelli attivi fino al 1920 ed ora riconvertiti in anonime strutture senza più alcun reperto) [seriamente danneggiati dal sisma]; Pescara (due mulini quello di proprietà dei Norcini Pala è stato mosso ad energia idraulica fino al 1939 quando è stato convertito in pastificio e successivamente in civile abitazione) [completamente abbattuti dal sisma]; Capodacqua (due mulini quello detto "Di Sopra" è stato mosso ad energia idraulica fino al 1964, era di proprietà della comunanza, fu ben restaurato nel 1907, conserva alcune macine abbandonate, sul retro sono ancora visibili le condotte, ci sono anche la tramoggia e la doccia realizzata in pietra, il canale è ancora percorso dall' acqua [seriamente danneggiato dal sisma], il secondo mulino è oggi scomparso, era più in basso del mulino gemello di un centinaio di metri, di proprietà plurifrazionata, al suo posto oggi c'è un lavatoio; Tufo (attivo fino al 1973,resta solo un muro perimetrale ed un canale di irrigazione usato oggi per gli orti) [completamente distrutto dal sisma]; Colle (sulla sinistra orografica del torrente Chiarino del quale restano poche rovine in prossimità degli abitati scomparsi di Colle Basso, Piano e Pigna Verde era di proprietà della famiglia Iacopini); Vezzano (mulino Cavarocchia, era fortificato e si trovava sulla destra orografica del Tronto, si conservano le mura perimetrali ed alcune costruzioni) [seriamente danneggiato dal sisma e dall'incuria].
Invitiamo appassionati, curiosi, turisti e studiosi a visitare i nostri antichi mulini, percorrendo i sentieri del G.A.D.A., per mantenere viva la loro memoria storica, testimone della coltivazione rurale di cereali che abbondava nelle nostre valli. Capiamo che oggi è difficile considerare questi antichi mulini beni culturali, datosi che sono quasi tutti in rovina, ma sarebbe importante ripristinarne almeno uno per continuare a raccontare storie di acqua e farina, per produrre ancora il buon pane di una volta, per mantenere una delle memorie storiche che purtroppo abbiamo perduto.
Vittorio Camacci
Ascoli e Dante: personaggi, luoghi e aneddoti
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Un doppio tour culturale il 30 maggio dedicato al Sommo Poeta
ASCOLI – In occasione della ricorrenza dei 700 anni della morte di Dante Alighieri non poteva mancare una iniziativa culturale dell’Unione Sportiva Acli Marche dedicata al Sommo Poeta.
Iniziativa che era stata programmata nei mesi di marzo prima ed aprile poi, ma rinviata causa le misure di contenimento del Covid19.
Si tratta di un tour culturale, all’interno del centro storico di Ascoli, che fa seguito alle tante iniziative che l’U.S. Acli Marche organizza ormai da anni nel territorio comunale.
Anzi di un doppio tour culturale in quanto le iniziative saranno due (uguali) con partenza da Piazza Arringo davanti alla cattedrale alle ore 9,30 ed alle ore 15.
L’iniziativa si svolgerà domenica 30 maggio, gode del patrocinio e del contributo del Consiglio Regionale – Assemblea legislativa delle Marche, del sostegno di Fondazione Carisap, Bim Tronto e Qualis Lab, del patrocinio del Comune di Ascoli Piceno ed è a partecipazione gratuita.
Nel corso della manifestazione sarà evidenziata la stretta correlazione tra la città di Ascoli e Dante Alighieri, non solo per la citazione del torrente Castellano nella Divina Commedia, ma anche per il rapporto tra lo stesso Dante e Cecco d’Ascoli e dei legami proprio tra la città delle cento torri e Firenze.
I due tour sono aperti ad un massimo di 40 persone ciascuna.
La prenotazione è obbligatoria e dovrà avvenire entro il 27 maggio con un messaggio al numero 3939365509 indicando nome e cognome di chi partecipa e l’orario scelto.
Saranno applicati il protocollo e le linee guida U.S. Acli nazionale di contenimento Covid19. L’utilizzo della mascherina ed il distanziamento saranno obbligatori.
Ultima difesa - di Vittorio Camacci
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Da Forca Canapine ad Accumoli, lo sguardo si allarga a perdita d'occhio su una terra di pietra calcarea, faggete ed erba sottile. Sassi bianchi punteggiano queste lande di confine dure e spigolose, attraversate nel corso di millenni da pecore e santi, montanari e contadini, pellegrini e viandanti. I laghetti di Accumoli non hanno la forma di un cuore, non hanno alcuna concezione di grazia, qui la civiltà sembra non essere mai esistita, qui ci si è fermati al medioevo. La povertà radicata in questa terra non è solo una condizione sociale ma è una forma di predestinazione. Il senso dell'ingiustizia e della prevaricazione sulla pelle degli allevatori che tentano di ribellarsi ai potentati locali, appartiene a tutti, anche a quelli che sfiniti sono partiti per trovare un lavoro dignitoso altrove, anche a quelli che si sono inventati un mestiere improbabile lungo la vallata del Tronto. Questo si vede, specialmente, nei volti alteri e sofferenti delle donne, che rispecchiano quelli delle antiche Madonne in terracotta custodite nelle pievi tratturali poste agli incroci delle piane fiorite. Quelle stesse pievi dove trovavano riposo dell'anima fedeli e pastori, gendarmi e briganti. Un territorio ferito da tante guerre di sopravvivenza che del dolore non ha mai fatto letteratura. Miracoli si, se ne sono visti tanti, non solo leggende inventate dall' influente Stato Pontificio, ma concreta alternativa alla passione civile soffocata per secoli dalle oppressioni dei potenti. Una spiritualità fatta di povertà cristiana, fatta di eremiti emuli di Gesù Cristo pronti a vivere di acqua di fonte, erbe, miele selvatico, frutta di bosco e preghiere all' interno di grotte sperdute nelle forre boscose. La stoica attesa di qualcosa che prima o poi arriverà: il Regno dei Cieli? La libertà? L’indipendenza? Il riscatto degli ultimi? Questa è la vera forza degli abitanti di queste terre, che gli permette di sopportare persino i capricci dei potenti che vogliono regalarsi una cattedrale di lussuria nel " wild ". Allora, partiranno tre processioni dai piedi di questo paradiso, come una devozione ai limiti di una coreografia feroce e pagana, con persone avvolte da bandiere e striscioni, come un pellegrinaggio laico compiuto strisciando con le ginocchia sull' erba fresca di primavera. Questo è il vero aspetto della ribellione, una forma di profonda protesta, verissima. Ci sono politici capitolini che si affannano a convincere i deboli e tentano di anestetizzare la protesta ma Roma questa volta non può chiudere gli occhi. Intanto, noi, sospesi tra francescanesimo e anarchia fatichiamo a difendere questo paradiso naturale quando la soluzione è semplice: basta ridimensionarlo riportandolo a misura d'uomo. Questa volta ci proveremo davvero!
Il canto a braccio - di Vittorio Camacci
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Nelle nostre zone è ancora viva la tradizione dell' improvvisazione poetica in ottava rima: il cosiddetto canto a braccio. Essa affonda le proprie radici nell' antico mondo agricolo-pastorale. La sera, conclusa la faticosa giornata di lavoro, i montanari si riunivano nelle aie, nei cortili o nelle osterie per trascorrere alcune ore di svago. Alcuni di essi si dilettavano fino a notte fonda nel cantare poesie in ottava rima spesso accompagnati dal suono delle ciaramelle o dall' organetto. Essi traevano ispirazione da grandi temi cavallereschi che venivano tramandati spesso per tradizione orale, in quanto molti erano analfabeti, ma conoscevano a memoria poemi classici come l' "Orlando Furioso" o la " Gerusalemme Liberata ". Da questa loro conoscenza dei grandi poemi cavallereschi del cinquecento e delle grandi liriche traevano poi linfa e modelli espressivi per le loro canzoni
estemporanee. Infatti , il canto a braccio è una composizione improvvisata in ottava rima su vari temi da due o più poeti. i temi possono essere svariati : religioso, familiare, amoroso, burlesco, sociale, politico, guerresco, naturale ecc. ecc. Per rendere più appassionanti e divertenti le tenzoni poetiche i temi vengono trattati a contrasto : angelo-demonio, pecora-lupo, mare-montagna, giovane-vecchio, suocera-nuora ecc. ecc. L' immaginazione e l' estemporaneità né costituisce la caratteristica principale mentre la tecnica più usata è l' ottava rima : strofe di otto versi, endecasillabi, di cui i primi sei sono a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, ma diversa da quelle precedenti e uguale a quella del primo verso dell' ottava successiva. La cadenza della declamazione del verso è il gorgheggio che, regala al cantatore un po' di tempo per improvvisare in rima il verso successivo. Ecco un esempio in ottava rima che mi ha dedicato un amico:
A - Vittorio, ti ringrazio a voce piena
B - Per tutto quello che mi hai scritto
A - Il tuo cantare è come una sirena
B - Spazia e gira con il vento dritto
A - Spelonga smania e non si frena
B - Persa nel canto e a chi ne ha il diritto
C - Piace il tuo verso amabile e cortese
C - E quello che decanti al tuo paese.
La bravura del poeta consiste nel mettere in difficoltà l' avversario chiudendo l' ottava con una rima molto difficile.
La poesia estemporanea basa le sue radici in un passato remoto quando intorno al VII secolo a.C. , in una zona dell' Etruria meridionale abitata dai Prischi Latini, presso la misteriosa città di Fescennino, si usava cantare con il volto coperto da una scorsa d' albero " versibus alternis " denominati "Carmi Fescennini" che niente avevano in comune con gli " Aedi Greci ". Nei secoli più tardi anche in altri paesi si sviluppò l' improvvisazione poetica. Ad esempio in Provenza, intorno all' XI secolo, si diffusero i " trovatori" che usavano una lingua segreta, contenuta in sei dialetti occitani, ispirandosi all' amor cortese dei " Minnesànger " germanici. Essi cantavano, in misterioso occitano, il ricordo dell' amor perduto, dell' amor cortese. Queste poesie contenevano spesso messaggi cifrati e segreti simbolici legati ai culti catarici. Più tardi, con il passar del tempo esse persero ogni significato spirituale, iniziatico e metafisico passando all' amore individuale, personalizzato cantato nella novella e nel romanzo. Anche nei paesi di lingua ispano-portoghese venne praticata la poesia estemporanea con l' uso della " Decima " detta anche " Espinela ". Essa è formata da dieci versi ottosillabici nella combinazione di rime : ABBAACCDDC. Abbandonata nel vivace dimenticatoio in cui si rifugia la musica di tradizione orale italiana, quando non oggetto di revival d' intrattenimento da palcoscenico o di riappropriazioni identitarie, la poesia estemporanea in ottava rima è una pratica fortemente radicata nelle nostre zone, nella Sabina, nella Tuscia viterbese, in Toscana e nell' appennino emiliano-romagnolo, grazie al modo in cui la parola poetica viene costruita attraverso la voce cantata essa mantiene un " nesso musaico" che fa rimanere in vita il nomos poetico musicale in cui si reggeva l' Arcadia, è una pratica relazionale che si avvale di un immaginario comune, di cui fanno parte il mito del poeta-pastore e i grandi poeti della letteratura italiana, in primo luogo Dante, Ariosto e Tasso, che venivano in passato memorizzati. Questa poesia vive preferibilmente in ambienti marginali, tra la gente comune, in luoghi ancora legati alla pastorizia ed all' agricoltura, anche se i poeti attuali, in gran parte, non sono più pastori o contadini e si esibiscono ormai sui palchi dei festival paesani. I nostri avi amarono la poesia estemporanea e spesso erano convinti che essa fosse un dono divino concesso alle anime pure, semplici e fantasiose. Non a caso il cantore estemporaneo era un artista particolare che doveva conoscere la metrica poetica, avere buone doti canore e di intonazione a " cappella", ovvero senza accompagnamento. Fortunatamente quest' arte non si è persa nei secoli grazie ad ostinati poeti a braccio, di rara sollecitudine, portatori di saggezza e buoni sentimenti che hanno sempre indagato l' arcano della Natura. Natura che è splendida bellezza e si fa poesia tra le case e le attività degli uomini. E' allora che la bellezza si fa amore. Amore per la propria casa, per la madre, la famiglia, il lavoro, l' amicizia e la nostra terra. Così le antiche tradizioni letterarie auliche del Petrarca, di Dante, dell' Ariosto, del Tasso, del Leopardi, del Pascoli, del Belli, mischiate a quelle popolari dei nostri cantori estemporanei potranno salvarci dalla distruzione. Non quella dei nostri paesi ma quella dell' anima.
Un particolare grazie agli " ultimi cantori " : Francesco Guccini, Walter Galli ( Emilia-Romagna ); Beatrice Bugelli, Anton Francesco Menchi, Eugenio Bargagli, Realdo Tonti, David Riondino, Roberto Benigni, Gino Ceccherini, Vasco Cai, Elio Piccardi, Marco Betti, Marinella Marabissi e Mauro Chechi ( Toscana ); Domenico Perilli, Bernardino Perilli e Marcello Patrizi ( Abruzzo ) ; Pietro Santolini, Domenico Franchi, Angelo Crisciotti e Urmare Giambotti ( Marche ) ; Di Carmine Virgilio, Pietro De Acutis, Riccardo Colotti, Vincenzo Pulcini, Mario Proietti, Ruggero Centi, Adalberto Fornari, Enrico Rustici, Alessio Runci, Francesco Lalli " Franchino ", Angelo Casini, Elia Casini, Felice Casini, Francesco Casini, Pietro Casini, Blandino Cesarei, Emidio Cesarei, Mariano Antonelli, Paolo Cioni " Paolino ", Orlando Persio, Francesco Calabresi, Saverio Lopez, Pasquale Mariani, Domenico Guidoni, Paolo Santini, Dante Valentini, Francesco Marconi, Giampiero Giamogante, Giuseppe Schinoppi, Peppe Felci, Domenico Pallotta " Biscarino ", Guido Blasi, Titta Marini, Spartaco Compagnucci e Agnese Monaldi ( Lazio ) ed a tutti gli altri.
Vittorio Camacci
Foto di "Picenobello"