IMG 20250511 WA0000C’è chi torna ogni anno nel proprio paese d’origine, tra le case abbandonate e le crepe del tempo, per compiere un gesto che va oltre la nostalgia: è un rito di appartenenza, una promessa mantenuta, una forma di resistenza. Camminare per quei vicoli vuoti, toccare le pietre della casa dove si è cresciuti, sentire sotto le suole l’erba che riprende spazio tra le fenditure dell’asfalto: tutto questo non è solo memoria, è presenza viva.
Si torna per piantare ancora un seme, anche se il terreno sembra ostile. Si torna per salutare i morti, per ascoltare il silenzio, per annusare l’aria che profuma di ginestre, fieno e camini accesi. Ogni gesto: un fiore sul davanzale, una zappa nella terra, una foto scattata all’alba; diventa un atto d’amore verso qualcosa che nessun terremoto, nessuna distanza o abbandono può davvero cancellare.
C’è chi porta con sé i figli, per mostrare loro da dove vengono. Chi resta zitto davanti a un rudere e dentro ci vede ancora le voci, le risate, il suono delle stoviglie la domenica. Chi, anche da lontano, continua a sentirsi parte di quel luogo e ne custodisce la lingua, le storie, i nomi dei venti. Chi, pur vivendo altrove, in silenzio rifà ogni anno la strada verso casa con lo stesso rispetto di chi compie un pellegrinaggio.
La montagna non giudica chi parte e non loda chi resta: è lì, immobile, a ricordare che il tempo è fatto anche di ritorni. Forse è proprio questo, oggi, il modo più autentico per dire che quei paesi non sono solo “zone rosse” o “aree interne”, ma cuori pulsanti che ancora chiedono ascolto. Restare legati ai luoghi in cui si è nati non è un’ossessione: è un modo per non dimenticare chi siamo, anche quando il mondo intorno cambia.
Mentre qualcuno chiede: “Ma perché ci torni ancora?”, la risposta sta nel gesto stesso del tornare. Perché lì, in quel silenzio, c’è una parte della propria anima che aspetta ogni anno di essere riconosciuta.
Io,invece, sono rimasto, quando in tanti se ne sono andati, o almeno ci hanno provato. C'è chi ha trovato un lavoro a cento chilometri, chi una nuova casa, chi una scusa. Io no. Io sono rimasto nel cratere. Non lo dico per eroismo, non sono uno di quelli che vanno in tv a spiegare che "la terra trema ma il cuore no". Il cuore trema eccome, ogni giorno, ma non è questo il punto. Vivo qui perché questo è il mio posto. Se qualcuno mi chiede: "ma non ti pesa?", la risposta è sempre la stessa: "pesa! Ma pesa anche il vuoto che ti lasci dietro, quando scappi."
Scrivo storie.
Non romanzi di successo, non thriller ambientati a New York. Scrivo storie che nascono qui, tra le montagne spaccate e le SAE di plastica e lamiera. Storie di pastori, briganti, vecchie che parlano con i morti e ragazze che sognano la costa ma poi tornano con le mani sporche di lavoro.
Lo faccio gratis.
Lo dico subito così non mi fate la domanda peggiore: "ma ci campi?" No. Non ci campo, né mi interessa farlo. So perfettamente che i libri, oggi, non si vendono se parlano di verità, di silenzi, di borghi sventrati che non fanno notizia. Non sono stupido. Non scrivo per guadagnare, scrivo per non scomparire. Per difendermi e per difendere ciò che amo.
Scrivo perché queste storie non le racconterà nessun altro. Perché i morti del terremoto non parlano più, ma qualcuno deve ricordare che c'erano e che noi, quelli che siamo rimasti integri, siamo ancora qui, malgrado tutto. Più vecchi, più stanchi, ma vivi.
E poi scrivo per me.
Perché in un posto dove adesso regnano grandi interessi economici, dove c'è un grande rumore mediatico intorno a faraonici progetti, dove si muovono tra polvere e detriti mastodontiche macchine edili, le giornate si somigliano tutte, fra i cantieri la sera c'è silenzio, un silenzio talmente spesso che se lo tagli ti restano i polmoni vuoti. Ecco la verità, in queste sere scrivere è l'unico modo che ho per respirare.

Vittorio Camacci

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