Situata in una conca pianeggiante nell'alta Valle del Tronto a 955 metri d'altitudine, in una posizione di cerniera tra il Piceno, la Marsica, la Sabina e l'Umbria, Amatrice può essere considerata la "Capitale" della Laga, come una freccia puntata verso Roma le cui retro punte laterali, Ascoli Piceno e Teramo fanno l'occhiolino alla costa Adriatica.
Solo da un centinaio d'anni è parte della regione Lazio mentre per secoli è stato un lembo dell'Abruzzo incuneato nello Stato Pontificio. Fu durante il periodo angioino, esattamente nel 1283 che il Principe di Salerno, il futuro Re Carlo II, per la fedeltà dimostrata al sovrano nella crisi dei vespri siciliani, le fece ottenere il privilegio di organizzare una fiera. Grazie a questo evento divenne ben presto fiorente e popolosa contando fino a cinquemila abitanti. Trovandosi tra i Monti della Laga e lo snodo delle vie appenniniche, svolse un prezioso ruolo mediatore tra i pascoli d'alta quota e i percorsi dei mercanti, raccordando, attraverso la Via Picente, gli Abruzzi al Lazio, l'Umbria e le Marche. È qui il cuore della transumanza, parola derivante dal latino "trans', aldilà e "humus", terra, sta ad indicare la migrazione stagionale, che parte in autunno e torna a primavera, dei pastori e delle loro greggi attraverso larghi sentieri erbosi detti tratturi, dal latino "trahere", condurre, menare.
Grazie a questa pratica ed a un contiguo numero di armenti, nel Rinascimento, Amatrice riuscì a creare attività artigianali considerevoli, la manifattura ed il conseguente commercio di particolari tessuti ricavati dal vello, i pannilana, resistenti e caldi anche se ruvidi. Di diversi colori e tipologie riscuotevano successo in tutti i mercati delle regioni limitrofe. "Il mercato della lana Rinascimentale era un motore di ricchezza paragonabile a quello dell'estrazione del petrolio dei giorni nostri". Fino agli anni cinquanta del secolo scorso si poteva assistere ad Amatrice, grazie alla transumanza ed alle greggi, ad una grande fiera che si svolgeva il giorno di San Giuseppe, il cui centro nevralgico era il "Campo della Fiera", l'odierna Piazza Sagnotti, che non bastava a contenere tutti gli armenti (oltre a pecore e capre anche cavalli e buoi e tutti gli animali domestici) ma anche arnesi da cucina, da lavoro e vestiario per le aziende di allevamento e quindi si spandeva in tutte le vie ed il circondario della cittadina, capitale dell'Alta Sabina. Ad una di queste fiere, che si teneva nel primo dopoguerra, si recarono due fratelli di Gimigliano, ridente paesino collinare sito a nord-ovest di Ascoli Piceno, per acquistare un toro. Erano due impenitenti scapoli, dotati di un cospicuo portafoglio impinguato dal duro lavoro di coloni agricoli. Di solito con tale lavoro non si diventava ricchi ma quando si era esenti da vizi e i soldi non si spendevano, all'epoca si poteva godere di un certo benessere.
I due erano affiatati nelle scelte e notato subito un bell'esemplare esposto in vendita da un allevatore di Cesacastina, pattuirono il prezzo incamminandosi immediatamente con l'animale lungo la via Salaria. A sera inoltrata raggiunsero la loro fattoria, stanchi ed affamati, legarono in fretta e furia il toro fuori dalla porta della stalla. Il mattino successivo la bestia era scappata. Dopo un lungo bisticcio toccò all'incauto fratello minore il compito di recuperare il toro. Dotato di buone gambe, fisico asciutto e una proverbiale pazienza il giovane con un lungo cammino di due giorni attraversò la Laga passando per Valle Castellana, Rocca Santa Maria, Cortino, Piano Roseto, Crognaleto fino a giungere a Cesacastina. Qui trovò il bovino che con l'istinto era tornato nel recinto del vecchio proprietario e tra lo stupore della numerosa famiglia del colono raccontò la sua incredibile traversata sulle orme del toro. Si fermò, così, un paio di giorni ospite in quella casa accogliente per ritemprarsi dalla fatica provata ed in questo lasso di tempo s'innamorò della figlia maggiore dell'ospitante, una ragazza costumata e laboriosa, soprattutto una brava cuoca. Detto/fatto oltre al toro riportò a Gimigliano un'abile mogliettina.
Con quel fenomeno culinario in casa i due fratelli gongolavano dalla contentezza: un giorno i maccheroni con le pallottine, l'altro le scrippelle mbusse, e poi il timballo, le virtù, la tacchinella canzanese, le mazzarelle, i ravioli di ricotta, le sfogliatelle, il formaggio fritto, i panzerotti, le ceppe, i tonnarelli, l'agnello cacio e ova, la pecora alla callara, il coniglio rosolato, la pizza dolce, i calcionetti. In breve tempo ingrassarono notevolmente e dopo aver pranzato presero il vizio di dormire satolli sotto il portico dell'aia. Il pomeriggio non lavoravano quasi più e nel giro di pochi anni si ritrovarono paffuti ed imbolsiti perdendo il loro proverbiale benessere, diventando una delle famiglie più povere del paese.
"Chi è lungo a mangiare... Lo è anche a lavorare"!
"Pancia piena, mani vuote"
"Troppa tavola e poco sudore, portano miseria e dolore"
Vittorio Camacci